Il Periodo dei Giudicati

Dopo la crisi dell’Impero e con le invasioni, si rovescia sulla Sardegna per oltre cinque secoli una lunga serie di cataclismi politici che sconvolsero la vita locale.

Nel secolo VIII i Saraceni con le loro terribili incursioni sconvolsero e distrussero le antiche città costiere e resero ancora più difficili i rapporti dell’isola con il continente, rallentando il ritmo della vita civile. Dopo aver occupato l’Africa bizantina, da Alessandria a  Centa, passarono lo stretto e invasero la Spagna, portando la desolazione e la morte anche in molte regioni della Francia e dell’Italia, specialmente nelle isole.

L’impero bizantino, impotente a prestare aiuti efficaci ad una regione così lontana come la Sardegna, abbandonò l’isola al suo destino. Ma la resistenza animosa dei sardi che non diede loro tregua e la povertà stessa dell’isola, sconsigliarono agli arabi ogni velleità di stabile dominio.

Tutte le città delle coste sarde furono ridotte in rovina e gli abitanti costretti a ritirarsi nell’interno, in posizioni più sicure, al riparo dalle loro insidie piratesche. Seguono tre secoli di misterioso silenzio, durante i quali la Sardegna è tutta raccolta in se stessa e ignorata dalla storia. Soltanto all’aprirsi dell’XI secolo, allorché si scorgono i primi incerti bagliori di luce, la nostra isola si presenta alla storia, rinnovata, indipendente dall’impero bizantino e divisa in quattro piccoli regni, indipendenti anch’essi fra loro: sono i Giudicati di Cagliari, Torres, Arborea e Gallura, retti da una nuova realtà politica e sociale, una organizzazione  semplice e rude, ma in pari tempo ordinata e logica. Prima si credette di assegnarne la creazione a Pisa, allorchè questa liberando i mari dalle insidie saracene, si trovò in diretto contatto con la Sardegna. Ora gli storici sono concordi nel ritenere che questa ripartizione fosse in realtà una diretta propaggine della magistratura bizantina che fin dai tempi dell’imperatore Giustiniano fu posta al governo dell’isola. Tra il secolo VIII e XI, la Sardegna da allora immune dalla dominazione barbarica, si trovò sciolta da ogni effettiva soggezione verso il lontano Impero d’Oriente e contro i frequenti attacchi saraceni sulle coste facili e aperte, dovette provvedere con forze proprie alla sua difesa, evolvendo sulle vecchie istituzioni, un nuovo sistema di governo.[1]

Questi piccoli regni o Giudicati, diedero all’isola un governo autonomo anche se frazionato e mediante leggi e saggi provvedimenti, ben presto fecero cambiare volto all’isola rimarginando le ferite causate dalle precedenti dominazioni. A capo di ognuno dei giudicati stava un Giudice, il quale , investito del supremo potere militare e civile, si faceva chiamare anche “ re “: Torchitorius rex Sardiniae de loco Callari, a Deo electus  vel coronatus (Torchitorio re di Sardegna nella località di Cagliari, eletto ed incoronato da Dio).

Siamo nell’anno 1059. E’ appunto in due diplomi di questo sovrano che noi troviamo per la prima volta menzionata la Villa di Decimo, con il suo attuale nome,  accanto a  quella di Uta.

Questo Giudice Torchitorio, nell’ottavo anno del suo regno, insieme alla moglie Vera e al figlio Costantino, si era rivolto con calde preghiere tanto all’Abate di Montecassino quanto all’Abate dell’Abbazia di san Vittore di Marsiglia, in Francia,  affinché gli mandassero alcuni monaci “cum codicibus et omnis argumentum ad monasterium facere et regere, et gubernare” (al monastero con i codici ed ogni altro mezzo atto ad  operare, reggere e governare).

Le preghiere di Torchitorio non furono vane perché i due abati mandarono subito alcuni monaci:  Cassinesi e Marsigliesi; ai primi  appena giunti nel giudicato cagliaritano, furono assegnate subito cinque chiese situate nel Sulcis, dove istituirono altrettanti centri monastico - agricoli.

Ai secondi, il giudice Torchitorio de Unale nel 1059 donò tramite l’abate Riccardo,  del  Monastero di S. Vittore di Marsiglia, la Basilica di S. Saturnino, posta fuori delle mura di Cagliari, dove sorse un Monastero che divenne il centro principale di diffusione della loro attività nella Sardegna medioevale.

Al priorato di S. Saturnino furono affiliate numerose chiese con vaste proprietà terriere, la cui estensione in terre aratorie, vigne, salti, poderi, abbracciava parecchie migliaia di ettari, oltre a numerosi servi, ancelle, bestiame grosso e minuto di ogni genere. Le chiese che il Giudice donava erano poste a poca distanza da Cagliari:

A Decimomannu, la chiesa di S. Giorgio, di S. Genesio, di S. Maria di Arco e di S. Nicolò con tutte le loro pertinenze .

A Uta  - le chiese di S. Maria, di S. Ambrogio, di S. Genesio e S. Maria di Margamillo.

A Villa Speciosa - Le chiese di S. Platano e di S. Cromazio;

A Siliqua - le chiese di S. Maria di Gippi di S. Iacopo, di S. Barbara del castello di Acquafredda;

A Villaermosa, le chiese di S. Lucifero di Pace, S.Saturnino e S. Maria de Corte Pinta;

A Serramanna - S Giorgio e S. Maria di Leni, oltre a molte altre chiese situate ad Elmas, Dolianova, Quartu, Sinnai, Mara che tralascio di nominare per brevità.

Tante ricchezze consentirono a quei Monaci di costruire, in seguito, con maestranze appositamente chiamate dalla Provenza la bella Chiesa di S. Maria di Uta e nelle forme allora in voga del romanico arcaico quella di S. Platano di Villa Speciosa, di S. Maria di Sibiola e quelle a noi più lontane di S. Antioco di Sulcis e di S. Efisio di Nora.

Essi ricostruirono molte chiese ormai cadenti o in rovina, e le dotarono di ricchi paramenti e di preziosissimi libri sacri.

Questi Monaci, veramente benemeriti della civiltà e del progresso dei popoli, portarono nell’agricoltura del tempo un caldo soffio di progresso, bonificarono terreni da secoli paludosi,  e introdussero nuovi sistemi di coltivazione e di irrigazione che trasformarono in campi ubertosi quelle che prima non erano che paludi e deserti.[2]

Le loro case monastiche sparse sui campi strappati alla malaria diventarono veri centri di intensa attività agricola e forse anche asili aperti alla cultura e all’arte e diedero ai Sardi l’esempio di una vita fervida di fede, di preghiera e di lavoro.

Si deve ancora a quei monaci veramente benemeriti la costruzione ed il restauro di molte chiese che esistevano un tempo attorno a Decimo, chiese di cui oggi non restano né le rovine né la memoria.

Esse erano: S. Nicolò, la più antica chiesa parrocchiale di Decimo,  di tradizione sicuramente bizantina, ricordata dagli scrittori sardi del cinquecento come monumento di rilevanza artistica;  S. Leonardo, già ospedale per lebbrosi; S. Vito, S. Giacomo, S. Pietro, S. Maria di Gippi de su tempus, S. Marco, antichissima chiesa, che diede il titolo comidale alla Famiglia Cao di Cagliari,  S. Lucia e S. Giorgio.

Le notizie più antiche che fanno riferimento a Decimo, per la prima volta, come un vero e proprio villaggio, col suo attuale nome, si hanno oltre che nel già citato documento di Torchitorio del 1059, in altri documenti datati 1066; esso allora non era altro che un minuscolo villaggio agricolo di poche case, sorte attorno al santuario di S. Greca, divenuto poi nel corso dei secoli un centro di culto per gli abitanti di molti villaggi, anche lontanissimi. La  fama dei prodigi che la credenza popolare attribuiva alla martire santa, richiamava numerosi pellegrini nei giorni della sagra che si celebrava ogni anno il 1° maggio. Vicino al santuario sorse un celebre monastero, prima di impianto Greco o bizantino, poi di osservanza medioevale cioè  Benedettino.

Attorno al santuario sorsero le “cumbessias” o “muristenis”, sorta di baracche dove alloggiavano i fedeli e i penitenti che venivano a trascorrere i periodi delle novene o di sagra e che si aggiungevano alle abitazioni permanenti dei coloni e dei servi del monastero.

Da questo primo nucleo religioso si sviluppò gradatamente un vero e proprio paese che fu chiamato Decimo perché a pochi passi dalla chiesa di S. Greca si trovava la strada romana da cui prese il nome.

Molto più tardi si volle aggiungere al nome il comparativo “maior”, per distinguerlo dall’altro centro omonimo che intanto era sorto a poca distanza dalla chiesa di San Giorgio e che fu chiamato Decimo “pupus”; Pupus è nel dialetto campidanese arcaico sinonimo di “ piccìu” , cioè minore, storpiato poi nella parlata volgare in “ putzu”: Decimoputzu.

Nel documento già ricordato di Torchitorio del 1059, Uta è detta “Vicus” cioè poco più che una fattoria agricola,  una “donnicalia”, come si diceva nella terminologia del tempo, costituita da poche case strette attorno alla chiesa di San Cromazio, non lungi dalla confluenza del rio Mannu col fiume Cixerri i cui meandri formavano in quei tempi pestifere paludi  malariche.  A poca distanza da Uta sorgeva una chiesa dedicata a San Genesio, forse in origine un antico eremitaggio di monaci orientali, posta ai confini con Assemini. Di questa chiesa non esistono oggi neppure le vestigia, tuttavia il luogo in cui sorgeva conserva ancora oggi il nome : Santu Inesu.

La presenza nel “Vicus” di Uta del Giudice Torchitorio, rex Sardiniae, come egli pomposamente si faceva chiamare, non sembra casuale, ma tutto ci induce a credere che, dopo la totale distruzione di Cagliari ad opera dei Saraceni, egli abbia stabilito la sua residenza ad Uta, donnicalia, appartenente al suo patrimonio privato, ritenuto luogo più sicuro e meno esposto alle insidie dei saraceni, che provenendo dall’Africa e dalla Spagna, scatenarono sanguinosi conflitti con le marine sarde, terrorizzando la popolazione e costringendola a rifugiarsi all’interno

Verso il 1200 Decimo  era diventato uno dei centri più importanti del giudicato cagliaritano; esso contava 207 abitanti soggetti a tributo, contro i 102 di Assemini e gli 82 di Uta, che erano allora fra i confinanti, i centri più popolati. La sua importanza, aumento anche perché  divenne capoluogo di una delle 17 curatorie, del Giudicato di Cagliari, come ricorda il Fara nella sua Chorografia, la “Curatoria Decimi” che oltre a comprendere il villaggio di Decimo Maioris, comprendeva anche i villaggi di Decimoputzu, Uta susu, Uta iosso, Villa Speciosa , San Sperate, Assemini, Villa de Archo, Villa de Forcilla, Villa de Arcedi, Villa de Semissis, Villa Seponti, Villa de Mogoro, Villa de Maisu, Villanova de Seruis  e Villa di Siliqua, allora tanto piccola che contava una decina di abitanti appena, ed i castelli di Acquafredda e di Gioiosa Guardia.

Non mancano documenti che ci attestano come più tardi Decimo divenne, anche se per qualche tempo, la residenza ufficiale dei giudici di Cagliari e la sede stessa del governo giudicale.

Quando, infatti, sul finire del 1215, Ubaldo Visconti, podestà di Pisa, avvalendosi di un forte esercito occupò impadronendosene, della città di Cagliari, si insediò nel palazzo giudicale, e per consolidare il suo potere fece costruire, in nome di Pisa, un poderoso castello in posizione dominante e la cui mole severa si stacca ancor oggi sul culmine della collina di S. Michele.

La giudicessa Benedetta di Massa, che reggeva allora il giudicato  dopo la morte del padre, il marchese Guglielmo di Massa, fu impedita di esercitare i poteri sovrani sulla città occupata dai Pisani  e si ritirò con tutta la sua corte nel palazzo giudicale di Decimo.

Abbiamo sicure notizie, ricavate da varie fonti, che nel paese di Decimo, sorgesse oltre al palazzo dei giudici, anche la Curia,  dove si adunava la  Corona de Logu, il Parlamento del tempo, cioè il supremo organo politico legislativo e giudiziario dello stato.

Non sono pochi i diplomi della Giudicessa Benedetta che risultano scritti “In Curia palacii nostri de Decimo” (Nella Curia del nostro palazzo di Decimo). Soltanto nel 1219, in seguito ad un deciso intervento del papa Onorio III, i Pisani furono costretti a ritirare le loro truppe dal Castello di Cagliari, e la giudicessa poté finalmente rientrare nella sua città - capitale.

Nella seconda metà del 1200, i fautori della potenza pisana sull’isola, cioè Ugolino e Gherardo di Donoratico, conti della Gherardesca, Nino Visconti, giudice di Gallura e il conte Guglielmo di Capraia assalirono con un forte esercito il giudicato cagliaritano. Dopo aver vinto e ucciso l’ultimo giudice che fu Chiano di Massa, si divisero il giudicato.

Il Sulcis, il Sigerro, Nora e Decimonannu passarono sotto il dominio diretto del conte Ugolino, immortalato da Dante nella Divina Commedia, il quale aggiunse ai suoi già notevoli titoli di nobiltà e di Dominio anche quello di Signore della 3° parte del Regno Cagliaritano. Decimo, passava così dal dominio dei giudici  a quello diretto di Pisa.

Fu sotto il governo dei giudici nel secolo XI che furono chiamati in Sardegna i Monaci Benedettini, di cui è stato accennato in precedenza, alla loro opera illuminata ed attivissima si dovette il rifiorire della agricoltura. I monasteri e le chiese erette da quei monaci nelle vallate più fertili, diventarono centri religiosi e agricoli, e le vestigia insigni della loro permanenza  che ancora rimangono, sono la testimonianza più evidente di un lungo e glorioso periodo di splendore.

Nelle terre intorno  e nella stessa Decimo, si è giocata anche una delle più disperate carte della storia sarda.

Nel 1297, Giacomo II d’Aragona  ricevette l’investitura di Re di Sardegna da Papa Bonifacio VIII, ma, costui non aveva nessuna fretta, ne’ molto entusiasmo di prendere possesso, su due piedi,  di quel “nido di vipere” che era allora la Sardegna.

Soltanto  26 anni dopo, infatti, dopo le pressioni di Ugone Giudice d’Arborea, l’Infante Alfonso d’Aragona,  si decise ad impadronirsi della Sardegna. La flotta spagnola partì da Porto Fangos al comando dell’Infante Don Alfonso. Era la più numerosa che avesse solcato il Mediterraneo, dopo quella pisana al tempo della conquista delle Baleari, e vi era imbarcata  tutta la nobiltà d’Aragona, di Valenza e di Catalogna. L’11 giugno 1323, sbarcò con una flotta nel Golfo di Oristano,e non fu difficile alle forze sbarcate assoggettare quasi tutta l’Isola. Infatti, non c’erano più i presidi pisani e la Repubblica aveva potuto inviare pochissimi rinforzi, mentre gli isolani aprivano le porte delle città agli invasori, per paura o per convenienza. Solamente Iglesias e Cagliari, resistettero a lungo perché vi si erano concentrate le disperse forze pisane, insieme ai sardi fedeli.

I pisani fecero un ultimo sforzo  preparando e armando 52 galee che partirono per l’isola, al comando del Conte Manfredi di Donoratico.

Dopo aver assediata e presa per fame Iglesias, che era una roccaforte dei Pisani, questi marciò contro Cagliari. I castelli pisani di Baratuli, Domusnovas, Gioiosa Guardia e Acquafredda, situati nella valle del Cixerri,  benchè saldamente muniti, caddero uno dopo l’altro nelle mani dell’invasore aragonese.

l 28 febbraio 1324, il martedì di carnevale, Manfredi di Donoratico, conte della Gherardesca, radunò le forze pisane con l’intento preciso di fermare la marcia dell’invasore, attaccando il nemico frontalmente. L’urto tra i due schieramenti, fu violentissimo e si risolse in una immane carneficina. L’Infante stesso fu sbalzato dal cavallo e ferito gravemente, venne circondato e rischiò di essere fatto prigioniero allorchè la retroguardia spagnola, accorsa, riuscì a liberarlo. Nel furore della battaglia anche lo stendardo aragonese cadde nella polvere.

Dopo la cruenta lotta, tuttavia,  le forze aragonesi, superiori di numero, riuscirono a rompere lo schieramento pisano e ad aprirsi la strada per Cagliari. La battaglia disastrosa per i Pisani, si concluse in una località situata tra Decimo ed Elmas, chiamata Banoterri, allora detto Lucocisterna o, secondo altri autori Logicisterna, Logocisterna o anche Lutocisterna, e pose fine al dominio pisano in Sardegna, la quale passava sotto il dominio aragonese.

In memoria della battaglia l’Infante Alfonso fece costruire la chiesetta di S. Giorgio, sulla sponda destra del rio Matzeu, presso Elmas, di cui oggi non restano che scarse rovine.

Un’altra decisiva battaglia si svolse presso Decimo nel 1353: il giudice Mariano IV d’Arborea, padre della grande Eleonora d’Arborea, mosse guerra contro il re d’Aragona; dopo aver invaso le terre aragonesi di Sanluri, Samassi e Serramanna, con 700 cavalieri, occupò anche Decimo, difeso da  Gherardo di Donoratico che quì vi fu sconfitto e condotto prigioniero ad Oristano.

La vittoria su Decimo consentì agli arborensi di occupare il castello di Siliqua, il villaggio di Quartu e cingere d’assedio il castello di S. Michele.

Il conte Gherardo però avendo avuto dal Re la consegna di difendere Decimo ad ogni costo, fu dichiarato reo di alto tradimento e privato dei suoi beni in Sardegna, fra i quali erano compresi il castello di Siliqua con la Curatoria di Decimo.

Dopo questo fatto il re d’Aragona donò la villa di Decimo a Ughetto di Santa Pace, con l’obbligo di tenere sempre munito il Castello di Sanluri, l’avamposto più avanzato dei domini regi al confine col giudicato d’Arborea.

Nel 1437 il Visconte di Sanluri cedette la sua Signoria su Decimo a D. Ludovico Aragall, nobile aragonese, governatore del Capo di Cagliari. Egli nel 1442 comprò i villaggi di San Sperate, Villa Speciosa e Siliqua, e formò con essi la cosidetta Contea di Gioiosa Guardia.

Dagli  Aragall la contea passò ai Bellit - Aragall e nel 1600 fu incorporata nel Marchesato di Villacidro e Palmas, il cui ultimo marchese fu Gioacchino Crespi Bou, conte di Valdaura e Grande di Spagna, dal quale il paese di Decimo fu riscattato nel 1838 per la somma di 205 lire sarde.

 



[1]  Cfr. SOLMI A., Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, pag. 1 e segg..

[2] Ad esempio la Palude di S. Giusta, tra Villa Speciosa e Decimoputzu

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