GIOVANNI BATTISTA FRANCO MARMORARIO

           Battista Franco marmorario proveniente dal comasco, valle d’Intelvi, operò in Sardegna dalla seconda metà del ‘700, (1769-1830), produsse i suoi capolavori con concezione artistica, in stile barocco e rococò sopratutto nell’accostamento dei marmi policromi e nel gioco cromatico degli intarsi colorati. Le sue opere sono: l’altare maggiore in preziosi marmi policromi del 1786 nella chiesa di Sant’Efisio di Cagliari in Stampace e l’altare in cui risiede il simulacro del Santo, del 1791. Nell’Oratorio delle Anime Purganti è suo l’altare maggiore (Piazza San Giacomo). Lavorò anche con Domenico Andrea Spazzi, realizzando opere indipendenti. A Villaputzu, come risulta da un contratto  risalente al 1764 e concluso nel 1774, nella chiesa di santa Caterina d’Alessandria, realizzò gli altari laterali, lo Spazzi fu l’autore dell’altare maggiore. Nella Cattedrale di Cagliari; cappella del Crocifisso, la prima del transetto sinistro, realizzò l’altare marmoreo datato 1787, presenta al cento una nicchia in cui è conservato il Crocifisso realizzato in legno dipinto risalente al XVIII secolo, opera dello scultore Severino Felice Cassino. Nelle due nicchie laterali sono presenti due statue, una raffigurante san Sebastiano e una san Rocco, santi particolarmente cari ai sardi, perché invocati per carestie e pestilenze che colpivano la Sardegna.  A Barisardo, nella parrocchiale di Nostra Signora di Monserrato, opera dell’architetto Giuseppe Viana, sono stati realizzati a fine settecento gli altari marmorei da; Michele Spazzi e G.B. Franco. Anche l’altare maggiore della parrocchiale di Sant’Andrea di Tortolì è opera sua, realizzata negli anni 1802-1803. A Siddi il presbitero, recintato da una “barandiglia”, è opera di Domenico Franco, cugino e cognato di Giovanni Battista poiché sposarono due sorelle Anna e Caterina Lazzari, figlie dell’organaro Giuseppe, anche questo operò in Sardegna dove risiedeva per un certo periodo, di lui si ricorda in particolare l’organo di Atzara recentemente restaurato. Genero dell’organaro Giuseppe Lazzari; “Nel giugno 1770 la figlia Caterina, sposò Giovanni Battista Franco di Lanzo d’Intelvi esponente di una delle principali dinastie di marmorari lombardi attivi in Sardegna.”[1] Nel 1778 il Franco in veste di procuratore dei Lazzari, è in Lombardia a curare gli interessi della famiglia per una eredità.

 Come si può notare, sia gli Spazzi come i Franco hanno operato in Sardegna in molte chiese, questi artisti hanno generato delle dinastie di marmorari che spesso creavano e collocavano in opera gli altari o altri lavori nelle chiese e in marmo. I così detti, magistri intelvesi:” Il nome e la storia dell’intera Val d’Intelvi sono intrecciate al fenomeno che, più di mille anni fa, trasformò modesti muratori, carpentieri e cavatori, in artisti ricercatissimi e molto apprezzati che lasciarono monumenti tuttora molto ammirati in quasi tutta l’Europa sino a Mosca. Non vi è un centro, anche modesto, nella valle che non custodisca almeno una testimonianza dell’attività artistica dei suoi artisti. Sia Lanzo d’Intelvi sia Scaria diedero i natali a molti magistri intelvesi, pittori, scultori, architetti.”[2] I magistri  intelvesi iniziarono la loro attività in Sardegna dal 1711, costituendo nel tempo un monopolio nell’attività dei marmorari (marmorer) specie nelle architetture ecclesiastiche.

Giovanni Battista Franco operò anche a Decimomannu dopo il 1777, quando su precisa indicazione contrattuale, nel 1788, costruì la parte superiore dell’altare maggiore della chiesa di Sant’ Antonio Abate, quello esistente, inglobando il paliotto pre-esistente del XVII secolo, fatto costruire dal canonico Spiga. L’atto notarile specifico dice che: “en orden a la faciada del altar se collocherà el mismo que hoy se halla”. L’altare maggiore della parrocchiale sostituì il retablo.[3]

Dopo il ritrovamento, nel 1633 delle reliquie attribuibili a Santa Greca, queste furono sistemate in un sarcofago di marmo bianco e custodite nella chiesa di Sant’Antonio Abate. Nel 1789 l’arcivescovo V.F. Melano fece una ricognizione , nel mese di Maggio, e fu messa nel cofanetto ossuario una pergamena ricordo. Questo era dovuto al fatto che si stesse edificando l’altare in marmo, opera di G.B. Franco, nel quale si pose alla sua base un oculo particolare, atto a contenere l’urna ossuaria delle reliquie della Santa, che rimanevano bene in vista. Durante i lavori; “per il vitto e l’alloggio dei maestri muratori e dei marmorari che innalzarono l’altare maggiore di marmo nella parrocchiale, con alcune altre cose che servirono allo scopo, si spesero 117, 10, 6 Lire.”[4]

Nella chiesa di santa Greca si terminò l’ampliamento, fu sostituito l’altare maggiore che era in legno[5] e venne realizzato il pulpito, per volere degli amministratori dell’Azienda di Santa Greca.

Nell’aprile 1786 la famiglia Xintu (Scintu) Marroccu ottenne le Salvaguardie Reali per le quali non dovevano essere molestati da alcuno per detenere e amministrare i gioielli (il tesoro) e gli abiti di santa Greca. Era prerogativa delle donne della famiglia vestire il simulacro con gli abiti della festa e spogliarlo all’ottava. Gli amministratori dell’Azienda i Marroccu, poiché introitarono moltissimo dai proventi e offerte alla Santa (vendite di animali, formaggi, offerte in denaro e natura),  nel 1789 pensarono di abbellire la chiesa appena ampliata, lo stesso anno venne montato l’altare maggiore della parrocchiale di sant’Antonio abate e fatta una ricognizione della reliquia di santa Greca.

 Nel 1790 ci fu l’accordo tra l’Azienda di Santa Greca e lo scultore Battista Franco per la costruzione dell’altare maggiore in marmo. Fu pattuito un compenso di 1096 scudi. A coloro che trasportarono il marmo da Cagliari “Is carradores” furono pagate 36 lire. Il Franco in quest’occasione era coadiuvato da Sisinnio Contu il quale, nel 1792 (6 Aprile), rilasciò la ricevuta per aver riscosso l’intera somma. Dello stesso anno è la lapide di marmo che ora è posta come pavimento o ultimo gradino della scala del pulpito (ambone). Finita la cupola,  si diede avvio alla costruzione di due cappelle laterali che nel 1820 furono impreziosite con altari in marmo; la cappella del sepolcro della Santa e quella di Sant’Efis. L’anno successivo (1821) fu completato l’altare maggiore e posto in opera il pulpito che fu reso più agibile da una nuova porta, aperta l’anno seguente. L’altare maggiore fu realizzato, probabilmente, in due tempi comunque fu finito dopo 32 anni, nella seconda fase dei lavori il Marmorario fu coadiuvato dal muratore Fanzeca. Il nuovo altare ed il pulpito furono illuminati meglio grazie all’apertura di nuove finestre.

La lastra di marmo posta dentro il pulpito è un documento molto importante. Pur conoscendo bene la lastra, per via della sua collocazione non è facile decifrare integralmente la scritta, ma il significato è evidente:

ALTARE VIRGINI ET MARTIRIS / DEVOTORUM UNDIQUE CONTRIBUENTIUM / OBLATIONIBUS /  NOBILIS ANTIOCHUS   MARROCUS / AN. 1792 / BAPTISTA FRANCI SCULPTORIS REGI

                I tempi comunque non corrispondono. L’accordo del 1790 e la liquidazione dei lavori con il saldo, fatto a Sisinnio Contu il 6 Aprile 1792, per il quale si ha la ricevuta di riscossione e la lastra di marmo testé illustrata, fanno pensare alla conclusione dei lavori in quell’anno. Ma dopo il completamento degli altari laterali nel 1820, risulta da vari documenti che solo nel 1821[6] fu completato l’altare maggiore e terminata la posa in opera del pulpito che fu reso agibile con una nuova porta nel 1822.

Inserimento della scuola dei marmorari intelvesi in Sardegna.

Le varie opere marmoree in Sardegna nel XVI secolo e sino alla metà del XIX riguardavano quasi sempre le chiese, erano opera spesso di marmorari genovesi. Agli inizi del XVIII secolo nelle chiese dell’Isola incominciarono a diffondersi gli arredi marmorei in sostituzione dei retabli lignei di matrice ispanica, insieme al rivestimento dei presbiteri, pile, lavatoi, fonti battesimali, pulpiti e credenze marmoree. Nel 1746, erano ancora in auge i marmorari genovesi, ma iniziarono a inserirsi anche alcuni magistri intelvesi, come Domenico Andrea Spazzi, marmorario che poi con i Franco creerà la scuola dei marmorari intelvesi, aprendo delle botteghe nel rione Marina.

Nel 1753 Ignazio Pozzo, noto marmorario genovese, acquista dai Gesuiti a Cagliari un vasto terreno in località Palabanda, che comprendeva anche l’anfiteatro romano, dal quale estraeva i marmi per utilizzarli nella sua bottega. Questo gli consentiva di avere un buon risparmio, nell’aprovigionamento delle materie prime. L’incremento di questo tipo di attività favorì l’emigrazione di molti artisti e artigiani, genovesi e lombardi. Le botteghe nel rione Marina assunsero notevole importanza, tra i primi a crearle furono gli Spazzi ai quali seguì G. B. Franco. Tra gli allievi e lavoranti vi erano anche dei sardi. Dai documenti risulta che nelle botteghe Dei due Marmorari lavoravano componenti delle due famiglie.

Nel 1760 Michele Spazzi noto Michelino, aveva bottega a Cagliari sino al 1779. Di scuola genovese, allievo di Giuseppe Massetti ( o Mazzetti), molto attivo operò a Cagliari nelle chiese di S. Giacomo, S. Giovanni, S. Domenico, S. Croce e a San Gavino Monreale, Villacidro, Loceri, Sardara e Uras. Dal 1779 la sua bottega fu gestita da G. B. Spazzi sino al 1799, coevo di G. B. Franco che aveva anch’egli bottega nella Marina. Intanto in quel periodo, era in voga la sostituzione dei vecchi altari, in molte chiese della Sardegna. Dove le condizioni economiche lo permettevano venivano “distrutti”gli altari lignei e i loro “retabli” per sostituirli con manufatti marmorei … inserire Suelli.

A  parte Ignazio Pozzo, che si era procurato una fonte di materia prima con l’acquisto del sito Palabanda, che però dava solo un tipo di pietra marmorea, mentre per realizzare i lavori policromi era necessario disporre di più tipologie di marmo. Pertanto venivano usati materiali di importazione poiché un progetto governativo, tra il 1770 e 1774, che doveva avviare una cava nella zona di Silanus, non andò a buon fine. I materiali arrivavano da Genova e come si desume dai documenti erano ; il marmo bianco di Carrara, il Serravezza di Firenze, il giallo di Siena e di Verona, il giallo e verde di Torino, il Broccatello e il Diaspro di Sicilia, il nero di Portovenere , il bardiglio “celeste”, il rosso di Francia e il Broccatello di Spagna. Questi marmi erano usati e commercializzati dai nostri marmorari.

Lo stile molto piatto dei marmorari genovesi subì delle modifiche. Le forme tendevano ad essere messe più in risalto, come l’inserimento di medaglioni e bassorilievi;  con figure  fitomorfe specie nei paliotti. La parte superiore degli altari in alcuni casi, come quello di santa Greca di Decimo, tendevano alla tridimensionalità. L’edicola del “nicho” della Santa è realizzato in profondità con delle colonnine in stile, sormontate da capitelli.

Quando c’erano precise indicazioni contrattuali, i marmorari riutilizzavano o adattavano ai loro lavori le parti preesistenti così a Decimomannu come a Suelli. L’esame dei contratti stipulati tra gli artisti ei committenti, che in genere erano dei ministri o amministratori ecclesiastici, ci consente di conoscere le varie fasi di lavorazione e i dettagli realizzativi dell’opera, per ciò che concerne la scelta dei materiali, il loro colore, la loro composizione formale. L’artista predispone un progetto dell’opera, in genere un altare, che sottoscritto dalle parti viene custodito dal committente. Nel contratto si precisano i tempi di realizzazione, di pagamento, le modalità di trasporto e montaggio; delle opere veniva data una accurata descrizione esaminando i gradini di accesso, la predella, il paliotto, i gradini dei candelieri, il tabernacolo, l’espositorio ed il coronamento.

Nel 1790 i marmorari, con le loro suppliche, pregarono il sovrano di concedere, in riconoscimento del loro lavoro, delle onorificenze. Questi rilasciò a G. B. Franco il diploma di; “Regio scultore in marmo”. Nel 1809 fu la volta di Domenico Franco che ricevette il titolo di; “Regio Architetto e Ornatista”. Queste onorificenze riconoscevano la pluriennale attività di bottega, ma anche quella, “in primis”, di aver formato i giovani apprendisti alla lavorazione dei marmi. G. B. Franco quindi fonda una Scuola di Architettura marmorea Pratica (1790), mentre Domenico, nel 1802, fonda la sua “Scuola di Architettura Civile”, dopo aver dato prova di bravura e competenza, realizzando le cupole di Bosa e di Cuglieri.

Dopo la morte di G. B. Spazzi nel 1797 e di Santino Franco nel 1799, G.B. Franco e Domenico Franco, cugini, risentirono del cambio di moda e della rarefazione delle commesse. Molti loro progetti furono modificati e anche il loro lavoro, prolifico e tendente alla formazione di nuovi marmorari durato decenni, andò scemando. I loro allievi non raccolsero l’eredità dei maestri e attorno alla metà del XIX secolo ci si rivolse nuovamente all’esterno dell’Isola, chiamando ancora i marmorari genovesi e carraresi.

Si segnalano anche Luigi e Ludovico Franco, questi risultano nei registri della fabbrica del seminario di Cagliari, come marmorari[7]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Da “Quaderni Derviesi”.

[2] Da Lanzo Intelvi. Luoghi e Itinerari.

[3] A Decimomannu risultano “distrutti” nel 1788;  il retablo dell’altare maggiore della chiesa di Sant’ Antonio Abate , che secondo documenti di nostra conoscenza, era coevo con l’erezione del tempio ed opera di Michele Cavaro, figlio di Pietro. Nella chiesa di santa Greca fu sostituito il retablo di Giovan Angelo Puxeddu. I tempi della sostituzione di questo retablo non sono chiari.

[4] APD, Libro duplicado dela Iglesia de Decimo Mannu, 1755-1805.

[5] Probabilmente il retablo di Juan Angel Puxeddo, fatto preparare subito dopo la peste e in coincidenza con la prima sagra di Sant’Efisio di Cagliari.

[6] Lo scultore[G.B. Franco] fu pagato con 106 scudi e il suo aiutante, coadiuvante, ricevette 99 scudi per il suo lavoro e 8 scudi per i materiali.

[7] Fabbrica del seminario 1777, pagamenti a Luigi Franco per riparare il pavimento e a Giuseppe Loddo e Ludovico Franco per l’iscrizione sopra il portale di ingresso.