I possedimenti del monastero di santa Greca di Decimo. San Genesio

 A Decimo c’era, nel XIII secolo, un monastero detto di San Giorgio e Santa Greca. Dai documenti si può comprendere che era tenuto da monache, non se ne conosce il periodo di fondazione, lo si può ipotizzare dell’ XI secolo, allo stesso periodo risale, esclusa la cripta, la parte più antica della chiesa di santa Greca. Il monastero era ubicato, molto probabilmente, dalla parte della casa Marras, sull’altro lato c’era l’acquedotto romano. Le monache per un certo periodo vissero di elemosine e lasciti, ma avevano a disposizione anche dei terreni  e beni, frutto delle donazioni dei giudici Cagliaritani. I documenti del 1066, 1070-1080, 1209 e 1217 lo confermano[1].

I possedimenti del monastero erano localizzati nelle curatorie di; Decimo, Gippi e Trexenta. Questi, dopo il 1324 erano sotto l’influenza degli spagnoli (catalano- aragonesi), ma se  si escludono San Genesio e Mayt (Mairu) tutti gli altri erano infeudati ai pisani, per accordi sopravenuti dopo la battaglia di Lutocisterna. Gli episodi che confermano questa situazione sono quelli di Fuliato de Serra e Pietro Penna.

 Pochi anni dopo, 1327, le monache si lamentarono con Alfonso per i danni e gli abusi che subivano a causa delle infeudazioni e vendite e con assegnazioni agli “heretats”, delle loro proprietà. Questi incuranti di quanto promesso dall’Infante alle istituzioni religiose, non si limitavano all’infeudazione dei beni, ma si prendevano per intero quanto assegnato, senza tener conto di coloro che in precedenza amministravano e godevano dei frutti e di quanto prodotto dalle comunità agrarie. Gli abusi riguardavano tutto quanto era amministrato dalle comunità oltre alla confisca abusiva dei raccolti, i braccianti e le loro famiglie erano sottoposti a prestazioni indebite.

San Genesio, Mairu erano accanto a Uta, nella zona rivierasca dello stagno di Decimo e in quella curatoria. Con l’avvento degli Iberici, la zona fu assegnata ai Carroz, assieme a Uta e Assemini, ma non San Genesio e Mairu che furono assegnate ai Ballister. Le monache pertanto nel 1327 dopo l’ennesimo abuso da parte degli “heretats” e a causa di contese e contenziosi che si andavano creando si dovettero rivolgere all’Infante Alfonso[2], il quale pur avendo garantito alle ecclesiastiche il rispetto dei loro diritti, spesso non riusciva a tenere sotto controllo i sudditi che commettevano degli abusi. Per i monaci e i loro conventi, la venuta dei catalano-aragonesi creò tutta una serie di problemi, anche esistenziali, che minò la presenza dei cenobi.   Le comunità rurali mantennero le proprie consuetudini e norme, e l'organismo giudiziario detto; corona de logu. Era un sistema legislativo e giudiziario diverso da quelli che i feudatari iberici conoscevano e ad essi quasi incomprensibili, come la stessa documentazione attesta nei primi anni di dominazione aragonese, quando s'incontrarono culture giuridiche differenti, oltre a codici linguistici diversi. Come si vedrà, soprattutto nelle aree urbane, si era giunti (già con i pisani, quindi con i catalani) ad una mediazione tra i diversi modelli legislativi.

Dopo la presa di Cagliari, successivamente alla battaglia di Lutocisterna, Alfonso volle ringraziare coloro che gli avevano dato aiuto durante questa prima parte della conquista della Sardegna. In particolare assegnò a Berengario Carròz una parte del Cagliaritano e della curatoria di Decimo, che in effetti smembrò. Nel 1325 assegnava al Carròz; Uta sus, Uta jus, Assemini e altre ville nella curatoria di Cagliari, compreso il castello di san Michele, ma san Genesio (Veneci) e Mayt (Mairu-Mayre) furono assegnate a Arnau Ballister. Tutte queste Ville erano nella curatoria di Decimo e ciò convinse il Carròz che rientrassero nella sua giurisdizione, anche perché ai confini della vegueria,[3]e le mise abusivamente sotto la propria tutela. Tutti questi avvenimenti e situazioni convinsero l’arcivescovo di Cagliari, Gioannello, a far valere diritti e privilegi della Chiesa secondo tradizioni e usanze degli anni trascorsi, dovuti alle donazioni dei regoli. Il Re d’Aragona il 6 Giugno 1328 emanò una carta di conferma. Agli inizi  del 1330 Berenguer Carròz completò l’ abuso, fece occupare dai suoi uomini le ville di san Genesio e Mayre, come detto assegnate al Ballister, pignorare gli abitanti, prendere il bestiame ed occupare le terre coltivate. Allo stesso modo si comportò con Pere de Montpaò, veguer di Cagliari che deteneva santa Maria di Claro, questa secondo Berenguer Carròz poiché accanto al castello, rientrava nella sua giurisdizione.[4]

Nel 1333 il Ballister dovette ancora rivolgersi al sovrano, il contenzioso con il Carròz non era stato risolto, fece richiesta che la questione fosse affidata al veguer o al sotsveguer. Quest’ultimo, su nomina del governatore, stabilì i confini, ma Gerau Ballister temeva che, a causa della potenza degli eredi di Berenguer Carròz e dei suoi uomini, la sentenza non sarebbe stata rispettata[5]. Le mire dei Carròz e l’incertezza dei confini erano da collegarsi anche con lo spopolamento delle Ville del Ballister, che da alcuni anni si stava verificando, tra le quali San Veneci.[6]

In quelli anni i mercanti barcellonesi, entrarono pienamente nell'amministrazione isolana,e  si interessarono ai feudi sardi. Tra 1339 e1340 Pere Mitjavila acquistò ville e saltus, già patrimonio di importanti feudatari, nel Regno di Cagliari e vicino la città meridionale. Alcune località, passarono  al Mitjiavila, erano quelle già di Arnau Ballister; Mayt e San Veneci. Il mercante aveva una certa influenza sul sovrano, lo dimostra l’episodio in cui egli entrò in conflitto con i magistrati cittadini e per il quale si rivolse al Cerimonioso, ricordando il privilegio alfonsiano che permetteva alla città di raccogliere legno nel regno di Cagliari «ad opus paliçade», mentre, lamentava il mercante barcellonese, i consellers e i prohomens, proprio sulla base del ricordato privilegio, facevano tagliare legno nei saltus delle ville di Mayr e San Veneci, da utilizzare per i bagni e i forni, attività che il re ordinò che non fosse permessa. Nel 1345 il Mitjavila vendette il suo patrimonio a Francesc de Sent Climent, personaggio già di primo piano a Cagliari e da allora uno dei più importanti heretat.

Col passare degli anni le cose non andarono meglio tanto che nel 1355 la badessa del convento di Santa Greca di Decimo si dovette rivolgere a Pietro IV perché secondo i documenti in loro possesso riconoscesse e facesse rispettare i loro diritti. Il Re Pietro IV venne in Sardegna all’inizio del 1355, per aprire il primo  parlamento sardo, inaugurato nel Febbraio del 1355 a Cagliari. Nei giorni precedenti fece un giro nelle Ville più importanti, i capoluoghi delle curatorie, tra le quali Pula e Decimo da dove scrisse alcune lettere. Possiamo ipotizzare che in tale occasione e sede le monache abbiano fatto le rimostranze al Re per avere il rispetto dei propri diritti.

Anche se le Ville rivierasche dello stagno erano in fase di spopolamento il sito di san Veneci, pur spopolato, assunse notevole importanza per i collegamenti militari e la fornitura di provviste e vettovaglie verso i castelli delle curatorie del Sigerro. Dalla fine del 1360, con la seconda e più dilagante ribellione del giudice d'Arborea che arrivò fino alle porte di Cagliari, a partire dal1365, il percorso attraverso cui dalla città l'amministrazione aragonese riforniva il vettovagliamento dei due castelli del retroterra per motivi di sicurezza mutò, Gioiosaguardia ed Acquafredda,erano minacciati dai sardi. Un primo tragitto attraversava lo stagno di Decimo (Santa Gilla) con particolari imbarcazioni, gli xius, adatti al trasporto di uomini, animali (cavalli e muli) e vettovaglie. Giunti a San Veneci o ad Uta, gli uomini e gli animali,caricati delle vettovaglie, proseguivano per l'itinerario terrestre fino ai castelli. I carri vennero utilizzati sempre meno e talvolta erano caricati sugli stessi xius, ma normalmente si servivano degli animali. Gli abitanti di Villanova si servivano anche dei muli i cui costi nel trasporto interno aumentarono. Carri e muli appartenevano perlopiù agli abitanti di Villanova, mentre gli xius a quelli di Stampace, che erano organizzati in compagnie. Esistevano le tabelle, con le tariffe per le varie prestazioni. Trasporto sullo stagno con i xius da Cagliari a san Veneci o Uta e da qui con i muli o cavalli sino ai castelli, ognuno con tariffe differenti. La maggior parte degli abitanti di Stampace documentati, risultano impegnati nelle attività di barquers, proprietari di barche; lauts e xius utilizzati per diverse attività come il trasporto del sale esportato da Cagliari o venduto al minuto, per il bisogno della popolazione cittadina e delle ville della vegueria o al servizio dell'amministrazione; sia per raggiungere le località costiere del golfo cagliaritano, che per i collegamenti e i rifornimenti dei castelli posti nel retroterra cagliaritano, attraverso lo stagno di Decimo (Santa Gilla). Durante gli anni in cui la guerra con il giudice d'Arborea aveva reso difficili, se non impraticabili i percorsi terrestri e per la pesca nello stagno. Le imbarcazioni degli stampacini, dunque, rappresentavano un mezzo il cui impiego poteva essere diversificato secondo la domanda del mercato o degli officiali pubblici. La documentazione però non  offre molti esempi in questo senso; anzi essa pone in evidenza che vi fosse una certa specializzazione, più che una diversificazione nell'uso delle imbarcazioni, infatti gli stampacini, proprietari di xius, al servizio dell'amministrazione per il trasporto di vettovaglie,uomini e animali attraverso lo stagno, negli anni 1360-1380, non risultano, salvo qualche rara eccezione, per lo stesso periodo, anche tra i barquers che esportavano sale. Un esempio della varietà dell’impiego delle imbarcazioni è dato dai componenti della famiglia Beluchas ( Graziano, Amplino, Francesco e Antioco) tra i più attivi, in società con i loro compagni, a trasportare con gli xius, vettovaglie, marinai, balestrieri, uomini armati in genere attraverso lo stagno. Graziano Beluchas, il più ricorrente in questa attività, fu anche pescatore e nel 1384 conestabile, ed ebbe in appalto, con altri, lo stagno del Sarrabus. Francesco, invece, lo si trova nel 1380 ad esportare con la sua barca 85 quintali di sale, si tratta però dell’unico ricordo dei Beluchas nel commercio del sale, in un periodo del resto in cui esso si andava concentrando nelle mani di pochi mercanti.

Le notizie sul monastero di Decimo finiscono nel 1413 e non sappiamo se le monache amministrarono sino a quel periodo i loro possedimenti. Per comprendere bene la storia del nostro monastero, bisognerebbe conoscere anche gli atri pezzi di storia, quali: Il monastero di santa Greca, Pietro Penna e Fuliato de Serra.

 



[1] Alfonso il Benigno confermava le donazioni del giudice Trogodor de Unale e di sua moglie Vera, risalenti al 1070-1080, lo instrumentum aliud donacionis di Parasone, giudice di Cagliari e d'Arborea, e di sua moglie Benedetta, redatto «in curia palatii de Decimo», nel 1217, e quello di Guglielmo, marchese di Massa e giudice di Cagliari, scritto «in villa Sancte Gille», nel 1209, e«omnes donaciones gracias concessionese et largiciones iamdicto Archiepiscopato et eius ecclesis factas seu quibusdam prelatis ac persionis recipientibus pro Archiepiscopatu predicto». Ibidem, f. 86r-v (1328, giugno 6); lettera al governatore in cui gli comunicava quella conferma. Su queste concessioni e le ville che vi erano indicate.

[2] L'infante ordinava il governatore di verificarlo. Protestò anche la badessa del monastero di San Giorgio di Decimo, della diocesi di Cagliari, che ricordò che aveva servi e terre nelle ville infeudate. Ibidem, ff. 199r-200r (16 Settembre 1327).

 

[3] Precisiamo che, da quando esiste il sito Decimo o Decimomannu non è mai rientrato nella zona metropolitana del capoluogo (Cagliari). Ciò dal tempo dei romani che lo consideravano quasi una porta verso Karalis. Lo stesso fu per i giudici che trovarono necessario creare una curatoria accanto alla capitale del Giudicato ma non inserirla nella curatoria stessa Cagliaritana, tanto che le ville di Decimo non facevano parte della vegueria.

 

[4] ACA, Cancilleria, reg. 511, f. 59r (1330, dicembre 13). «nos ei dederimus villam de Sent Veneci que est dispopulata situata in curatoria de decimo insule Sardinie cum terminis saltibus et aliis juribus eiu sdem ipsamque possiderit per quinque annos in amplius pacifice et quiete attamen Nobilis Berengarius Carroccii occupavit maximam partem termini ville ipsius asserendo quod est de termino ville de uta que est ipsiuus bererngarii et propterea pignoravit homines dicti Arnaldi et occupavit violenter bestiaria eiusdem occupopavit etiam ut asseritur dictus Nobilis magnampartem terre laboracionis quam prefatus Arnaldus habet prope Castrum Callari apud villam eius voc atam Sancte Marie de Claros quam terram petrus de Montepavone qui eam habebat ex nostra concessione dedit grosse eidem asserendo dictus Nobilis quod est de termino Castri Sancti Michaelis aliud vocati Malvehi».

 

[5] Il re ordinava al governatore che nessuno molestasse i possessi del Ballister egli affidava gli accertamenti del caso, attraverso una persona idonea e non sospetta.

 

[6] ACA, Cancilleria, reg. 517, f. 17r-v (1334, maggio 13): «ratione saltuum ac terminorum de uta sus et uta jus que dictus nobilis quondam habebat et tenebat ex concessione nostra in insula Sardinie in curatoria de Decimo et villarum seu locorum vocatorum Sant Veneci et Mayt (Mayre) quas seu que dictu Arnaldus in dicta curatoria et inibi ad perpetuam rei memoriam fixe seu posite fuerint fita sive mollones», il re ordinava che dictam sentenciam fosse fatta osservare dal governatore in modo che il Ballister «qui propter heredum dicti Berengarii carrocii quondam et hominum ac valitorum suorum potenciam timet», non fosse danneggiato dal mancato intervento del governatore («super hiis agravari non habeat ob vostrum defectum»). Lettera dello stesso tenore al governatore in ibidem, f. 104r/2 (1334, maggio 13).